Terroir e territorio, tra passato e modernità
A chiunque si avvicini al mondo del vino – esercitando non solo i sensi, ma anche la voglia di conoscenza -, ben presto accade di sentire parlare di terroir e di territorio come elementi fondamentali del corredo identitario di ogni nettare. Il neofita potrebbe pensare che i due termini indichino la stessa cosa, laddove il francesismo fosse considerato un vezzo magniloquente con cui tradurre il sostantivo italiano. In realtà, si tratta di due concetti distinti (seppure risultino complementari nelle dinamiche di valorizzazione e promozione), con cui collocare geograficamente e culturalmente la particolare espressione di un vitigno e l’unicità che ne deriva.
Ed ecco che con terroir si intendono le peculiari condizioni pedoclimatiche (composizione del terreno, esposizione ai venti e all’inclinazione dei raggi solari, piovosità, vicinanza al mare e altro) in cui vegeta un vigneto. Mentre alla voce territorio appartengono tutti gli aspetti attrattivi che alimentano lo storytelling di un luogo e del suo vino: storia, monumenti, arte, cultura, paesaggio e portato etnografico.
Ciò che è intellettualmente stimolante in tutto questo discorso è l’eterno rincorrersi di tradizione e modernità, sia nella vitivinicultura sia nella narrazione del territorio, la quale – qui più che altrove – non si esaurisce nella sola esaltazione del passato glorioso. Lo testimoniano esperienze imprenditoriali come quella di Vigne Monache, azienda manduriana, e la composita eredità culturale della stessa città di Manduria.
Vigne Monache e il “santuario” del Primitivo
«L’azienda è stata fondata appena undici anni fa, ma proviene da una centenaria tradizione famigliare di vignaioli». Inizia così il racconto, tra passato e modernità, di Salvatore Nigro, che con la moglie Rita Biasco alimenta quotidianamente la vivace mission di Vigne Monache: mettere a frutto le naturali potenzialità viticole attraverso prodotti in grado di rappresentare una novità. Una scelta che, tra le altre cose, ha portato la piccola realtà manduriana ad affiancare alla vinificazione classica del Primitivo un rosato (Anima Rosa) e uno spumante brut rosé (eXprimo), derivati dal medesimo vitigno.
«In cantina – spiega Nigro – usiamo tecniche e tecnologie al passo con i tempi. La stessa cosa avviene in campagna, dove, però, la tradizione ha un peso più rilevante, anche in virtù del prezioso patrimonio viticolo che abbiamo ereditato». Nei 9 ettari vitati (per il 90% a Primitivo) di contrada Vigne Monache-Paduli, infatti, l’azienda custodisce un tesoro inestimabile: un minuscolo vigneto ancora produttivo di Primitivo, datato 1920. Forse il più antico di tutti. «Si tratta dell’originaria varietà ad alberello denominata ‘400’, che ormai non c’è più. Sono tutte piante che furono innestate sul posto, poiché all’epoca non esisteva la barbatella già pronta. Sul selvatico veniva fatta attecchire la marza, poi si faceva un ripasso in agosto per gli arboscelli che non rispondevano all’innesto. Con una resa di soli 20 quintali per ettaro, da qui ricaviamo il 1920, un dolce naturale DOCG, che possiamo considerare a tutti gli effetti un cru».
Quando si parla di Primitivo di Manduria, i due concetti sembrano addirittura dilatarsi. Per quanto riguarda il terroir, infatti, l’alternarsi di zone con microclimi e terreni diversi nell’areale della DOP (secco) e della DOCG (dolce naturale) dà luogo a vini dalle caratteristiche organolettiche specifiche ovvero in grado di differenziarsi tra loro, pur nella fedele appartenenza alla riconoscibilissima tipicità della denominazione.
Stessa cosa per il territorio, che vanta un patrimonio attrattivo ampio e vario, capace di restituire in un calice sempre nuovo le bellezze paesaggistiche e artistiche, la storia millenaria e i lasciti culturali che impreziosiscono i diciannove comuni ricadenti nell’areale, dal Tarantino sud-orientale al sud-ovest Brindisino.
Si capisce bene, dunque, perché questo posto sia diventato una sorta di “santuario” del Primitivo, nel quale Salvatore Nigro è solito accompagnare i “pellegrini” wine lovers. Tanto più che a sormontare la vista dei vigneti, a 112 metri di altura, c’è la vicina area archeologica Li Castelli, insediamento di epoca messapica, frequentato almeno dall’VIII sec. a.C. sino al III. Nel sito, meta di visite guidate, restano riconoscibili le tracce di tre cinte murarie, di una necropoli e di un edificio.
Assìade, chi è costui?
Molto è giunto alla Manduria di oggi dai Messapi, quasi tutto racchiuso nel monumentale Parco Archeologico, alla periferia nord-est della città. Invece non è messapico né di derivazione epica, come si sarebbe portati a pensare, l’altisonante nome di uno dei vini di punta di Vigne Monache: Assìade, Primitivo di Manduria DOP, firmato dall’enologo Salvatore Digiacomo. Come per il manzoniano Carneade, infatti, ci chiederemmo invano chi sia stato costui, poiché l’appellativo altro non è che il fantasioso risultato di una crasi tra Alessia e Desirée, i nomi delle figlie della coppia Nigro-Biasco. Ma a giudicare dall’apprezzamento che questo vino raccoglie sui mercati, l’anonimato non gli appartiene affatto.
Nelle parole di Salvatore Nigro, la sua carta d’identità. «È un secco che misura il 15% di titolo alcolometrico volumico. La macerazione termocontrollata delle uve dura almeno 15 giorni, con delestage. La fermentazione avviene in acciaio, come anche l’affinamento, che si conclude in bottiglia. Ne produciamo circa 10mila pezzi l’anno, che viaggiano in tutta Italia e all’estero, soprattutto in Albania, Germania e a Boston».
La vocazione all’export di Vigne Monache non si esprime solo con Assìade. Oltreconfine, infatti, viene commercializzato ben il 40% dell’intera produzione aziendale, la quale, oltre che nei Paesi già citati, è presente anche in Svizzera, Slovacchia, negli stati del Benelux e, fuori Europa, nella provincia canadese dell’Ontario.
A dispetto della tradizione, che vorrebbe l’inizio della raccolta del Primitivo già nell’ultima settimana di agosto (il nome del vitigno deriva dal latino primativus ovvero che matura per primo, precocemente), Assìade nasce da grappoli tagliati manualmente nella seconda decade di settembre e adagiati in cassetta. «A fine agosto – spiega Nigro – vendemmiamo il Primitivo che ci serve per fare il rosato e lo spumante, perché per questi occorre una base più acida. Mentre per i rossi attendiamo una maturazione più elevata».
Di Assìade è in commercio anche una versione Riserva, affinata per 18 mesi in barriques di rovere francese di secondo passaggio e con un titolo bomba del 17,50%. «La produciamo in sole 1500 bottiglie, selezionando le uve dalle piante meno giovani, come se facessimo una sorta di zonazione. Chiaramente non è possibile assicurare la Riserva per ogni annata, poiché la sua produzione dipende moltissimo dalla natura. Se non ci sono le condizioni, non la produciamo, com’è accaduto nel 2018».
La degustazione
Il Primitivo di Manduria DOP Assìade colora il calice di un impenetrabile rosso rubino intenso, con riflessi violacei al bordo e colature di archetti densi sulla parete vitrea. Al naso primeggiano i sentori di frutti rossi surmaturi (la prugna, soprattutto), seguite da note di chiodi di garofano. In bocca il vino si rivela elegantemente tannico, di corpo e di giusto equilibrio, con un finale al cacao.
A tavola accompagna pietanze ben strutturate: si potrebbe partire con pasta fatta in casa al ragù, per proseguire con una grigliata di carne, sino all’incontro assonante con la frutta secca.
L’annata 2017 ha ricevuto il riconoscimento di Grande Vino dalla guida Slow Wine 2020.
Manduria e lo sguardo sulla contemporaneità
L’identità di vignaioli moderni, ma attenti al passato, per affinità e caratteristiche accosta il profilo di Vigne Monache a quello della citSAtà di Manduria, dove i segni e i personaggi della contemporaneità hanno sempre fatto da contraltare a un passato onnipresente, in vestigia, monumenti e tradizioni.
Questo è tuttora il luogo delle origini e dell’impegno creativo di Omar Di Monopoli, romanziere di successo internazionale, capace di inventarsi un genere letterario conosciuto come “western pugliese”, buono anche per il cinema (alcuni suoi romanzi sono stati opzionati per dei film) e il fumetto (è in uscita per Sergio Bonelli Editore Nella perfida terra di Dio, tratto dal romanzo omonimo). Il suo sguardo sulla contemporaneità compare spesso su numerosi media nazionali, tra cui abitualmente La Stampa.
A Manduria è tornato recentemente Ferdinando Arnò, noto musicista, compositore e produttore, formatosi al Berklee College of Music di Boston e diventato un’autorità nel campo della musica per la pubblicità. Dal suo scouting sono saliti alla ribalta Malika Ayane e Colapesce e la sua bacchetta ha diretto per due volte l’orchestra del Festival di Sanremo.
Era di Manduria anche Giuse Dimitri, intellettuale di matita e di penna, morto tragicamente nel 1993. Forse il più moderno di tutti, per il periodo di cambiamento sociale in cui si sviluppò la sua produzione. Irriverente, goliardico e anticonformista, Dimitri è stato grafico pubblicitario, disegnatore satirico, puntuto articolista e autore di pamphlet al vetriolo. Il suo spirito arguto ha rappresentato un punto di riferimento per la cultura manduriana, in particolar modo negli anni ’70 e ’80, periodo in cui le due maggiori e alternative visioni della società, quella cattolica e quella comunista, lasciavano ampi spazi alla critica, politica e di costume, di impronta liberale e laica, quale fu appunto quella di Dimitri. Gran parte delle sue opere sono raccolte nel volume Giuse Dimitri. Ritratto di un esteta di Anna Maria Leccese, pubblicato nel 2007: oltre 150 immagini, tra vignette, disegni, grafiche pubblicitarie e scritti sardonici. Nelle illustrazioni di Dimitri sorprende quel tratto così poco provinciale di un disegnatore che alla provincia era tornato, con il portato delle influenze liberty. E con in testa la Milano del boom economico, che si specchiava nei manifesti della pubblicità, meretrice e dandy, che prosperava fuori dalle stanze paludate di Brera. Seppure mai confermata (forse agì da ghost designer per un illustratore più affermato), per molti è di Dimitri la paternità dell’omino con i baffi e il ditone alzato di Bialetti, un’icona del branding italiano, in grado di superare indenne le rivoluzioni di mezzo secolo di comunicazione pubblicitaria.
Dimitri ebbe un rapporto dialettico con il vino, così come con tutte le cose. Frequentò osterie, difese provocatoriamente la liberalità di ogni bere, disegnò etichette (tra cui anche quella dello storico rosato Five Roses di Leone De Catris). Con il suo motteggiare alla Ennio Flaiano, nel 1978 condannò le edulcorazioni non proprio naturali di certi vini da taglio: «Le prospettive della viticoltura sono amare per eccesso di zucchero», scrisse.
Le antichità di Manduria
Ma Manduria è anche luogo millenario, si è detto. Una storia che comincia cinque secoli prima di Cristo, per guardare oltre il tempo presente. Immerso tra le vestigia, infatti, al visitatore sovviene l’eterno. La città rivela la sua fiera antichità principalmente nel Parco Archeologico delle Mura Messapiche, che racchiude anche testimonianze bizantine. Lì suscitano ammirazione i megaliti delle tre cinte difensive della città messapica, intervallate da fossati. Nel IV sec. a.C., le mura impedirono a Taranto la conquista del Salento messapico, divenendo teatro della morte di Archidamo III, re di Sparta. Nel sito risultano identificabili le strade e le porte di accesso alla città da sud-est e da nord. Nelle adiacenze è visitabile anche una necropoli che conta circa 2500 tombe (dal VI al III sec. a.C.) scavate nella roccia: l’area più estesa del sud Italia nel suo genere.
Nella zona d’ingresso del Parco Archeologico, inoltre, si trova il Fonte Pliniano, un grande antro naturale, contenente una fonte perenne. Per un effetto di vasi comunicanti sotterranei, creati dalla natura, qui si verifica il miraculum descritto da Plinio il Vecchio (I sec. d.C.): nella vasca di raccolta centrale il livello dell’acqua resta costante, pur togliendone o aggiungendone.
Sempre all’interno del Parco sorge la cappella medievale di San Pietro Mandurino, la quale sovrasta una tomba a camera del periodo ellenistico (IV-III sec. a.C.), successivamente annessa a una cripta bizantina (VIII-IX sec.), aggraziata da pitture parietali a tema religioso. Sul soffitto si scorgono le fasce decorative dell’originaria tomba a camera, mentre le pitture di gusto bizantino raffigurano diversi soggetti, tra cui una serie di santi eremiti. «Molte sono le curiosità relative alla vita di questi santi», rivela Salvatore Nigro. «Guardiamo, per esempio, l’affresco che raffigura Santa Sofronia di Taranto. La vediamo in due pose: mentre scrive su un tronco d’albero e, da morta, mentre gli uccellini coprono il suo corpo di rametti. Sono richiami alla sua tradizione agiografica. La santa, che visse a Taranto nel IV secolo, raggiunta l’età adulta volle abbracciare una vita solitaria, per meditare sul divino. Per questo, lasciò il borgo cittadino per andare a vivere sulla vicinissima isola di San Pietro, nel mare che bagna la città. Lì visse del poco che trovava, conversando con gli angeli e scrivendo le proprie memorie sulle cortecce degli alberi. La leggenda vuole che si crucciasse della fine che avrebbe fatto il suo corpo dopo la morte. Ma, come detto, al momento del trapasso gli uccellini si occuparono pietosamente della salma. Poi le sue spoglie furono riportate in città da un gruppo di pescatori. Dal punto di vista documentale, la pittura parietale di San Pietro Mandurino dedicata alla santa ha valore di unicità, poiché la sua presunta datazione la fa pre-esistere alle altre rappresentazioni di vita anacoretica (e della stessa Santa Sofronia) diffuse con l’avvento del monachesimo orientale».
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