Il rosato o del fresco meditare
La conoscenza disvela il vero e il suo esercizio è sempre un’operazione meditativa. Nella filosofia come nelle scienze, finanche nella psicanalisi, la verità è una conquista del pensiero e delle sue infinite articolazioni. Comprese quelle che sollecitano l’anima.
Da millenni il vino è considerato un ottimo detonatore di questo processo. Seguendo gli insegnamenti del pitagorico Archita di Taranto e di Socrate, già Platone indicava nelle libagioni la giusta premessa per ogni meditazione filosofica, capace di sollevare il pensiero dall’ancoraggio della condizione umana e portarlo in una dimensione altra, più vicino alla verità.
L’appeal modaiolo del bere bene, cresciuto progressivamente negli ultimi venticinque anni, ha fatto scoprire anche agli appassionati meno consapevoli l’esistenza di un viatico enoico alla riflessione, sia essa introspettiva ed esistenziale o piuttosto universale ed escatologica. Oppure semplice relax psico-fisico, senza grandi pretese intellettuali.
Il primo a introdurre il concetto di vino da meditazione fu il noto enogastronomo e scrittore Luigi Veronelli, che lo usò per quei nettari che non hanno necessariamente bisogno di un abbinamento con delle pietanze per essere apprezzati, ma che anzi possono esprimersi al meglio da soli, centellinati in rituali di gusto e ponderazione, in cui il bere gode di un tempo dilatato. Sono soprattutto passiti e liquorosi, di grande complessità olfattiva e papillare. Ma anche rossi strutturati secchi, nobilitati da almeno un lustro di barrique o da una straordinaria longevità. Spesso si accompagnano alla lettura, come era già in uso ai pitagorici nel V secolo a. C., oppure a un sigaro o a un buon disco.
Ma questo quadro, seppure ampiamente motivato, rischia di essere discriminatorio nei confronti di quei vini che contrappongono al peso della struttura la leggerezza mediterranea, alla riflessione intimista l’estroflessione creativa, al conforto del calore il pungolo (l’oistros degli antichi Greci) del refrigerio. Insomma, un altro modo di meditare.
Esiste infatti anche una meditazione che nasce e si sviluppa nel fresco e che può avere come facondo mentore un vino rosato. Per troppo tempo emarginato dalle carte dei vini, oggi il rosato ha conquistato posizioni di rilievo soprattutto nel consumo estivo e in quello femminile, ma nella corsa all’eccellenza gli manca di percorrere ancora l’ultimo miglio: destagionalizzarsi e affrancarsi dall’aura del disimpegno, nella quale spesso viene ingiustificatamente confinato.
In Salento si lavora per questo, ormai da qualche anno. Forse perché lì i Messapi, già sei secoli prima di Cristo, praticavano la tecnica della vinificazione “a lacrima”, mediante la quale filtravano il mosto fiore da sacchi di iuta, ottenendone un vino poco pigmentato, da destinare ad aristocratici simposi di carmi, musica e giocoleria. O forse perché in quella terra il rosato da Negroamaro fu imbottigliato per la prima volta, nel 1943, dando il via alla storia di una vocazione enografica unica, ormai riconosciuta come tale in tutto il mondo.
I rosati salentini ora stanno ripercorrendo la strada che fu già della birra, la quale – a partire dagli anni ’80 – cominciò ad uscire dall’imbuto del consumo estivo e fuori casa, per approdare sulle tavole degli Italiani durante tutto l’anno. Sino a esaltarsi, più recentemente, in sofisticate birre da meditazione di fattura artigianale. Un’evoluzione fatalmente profetizzata dallo slogan pubblicitario con cui tutto ebbe inizio: «Meditate, gente, meditate!».
Il rosato è vino versatile per definizione, buono anche per l’inverno (in Francia abbonda nei calici delle feste natalizie), facilmente abbinabile a «snack salati, zuppe sostanziose e cene di stagione» (così la testata americana Wine Enthusiast). Ma è anche un vino autosufficiente, capace da solo di innescare il pensiero creativo davanti a un foglio bianco o una tela nuda. Una meditazione dal fresco che eccita le sinapsi, nella controra estiva così come davanti a un camino acceso.
«Della frescura / faccio la mia casa, / e qui riposo», recita un haiku di Matsuo Basho. L’otium in rosé ci attende sull’uscio.
Rosalbòre, Negroamaro secondo tradizione
Nel nord Salento, nel cuore del comprensorio del Salice Salentino DOP, c’è chi mantiene viva la tradizione della lacrima rosata degli avi, trattando il Negroamaro con il rispetto della specificità che gli si deve, quantunque consegnandolo a modernissime tecniche di vinificazione ed esaltazione enologica. L’alchimia che trasforma il passato in presente avviene nelle Cantine San Pancrazio di San Pancrazio Salentino, paese di circa 10mila anime, adagiato come un cuscino di vigneti e uliveti tra la provincia di Brindisi, a cui appartiene, e quelle di Taranto e di Lecce. «Il nostro rosato – spiega Antonio De Leva, responsabile commerciale della vinicola sanpancraziese – è molto più tradizionale di quelli maggiormente presenti sul mercato, soprattutto per il colore. La tendenza in atto è quella di inseguire le nuances del rosa tenue, color buccia di cipolla: i Francesi lo fanno da sempre e ora anche alcuni dei nostri competitors stanno seguendo questa strada. A noi, invece, piace conservare un rosa brillante tendente al cerasuolo, che corrisponde a un periodo di vendemmia e a un tempo di contatto del mosto con le bucce ben precisi».
Il rosato di punta di Cantine San Pancrazio è Rosalbòre, un Salice DOP da Negroamaro in purezza prodotto in 80mila bottiglie all’anno, che si porta nel nome la frescura rigenerante e meditativa delle aurore salentine. Per ottenerlo fedele alla sua impronta storica, le uve da cui deriva vengono allevate ad alberello pugliese (4.500 ceppi per ettaro) di 30-50 anni, vendemmiate tra la seconda e la terza decade di settembre, diraspate e pigiate delicatamente, per poi essere sottoposte a una breve macerazione pellicolare. Il mosto che se ne estrae è appena il 30% del totale e il grado alcolico finale, dopo la fermentazione a 16°C di temperatura, segna 13,5%. «Se la vendemmia avvenisse ai primi di settembre – commenta De Leva – otterremmo un colore più tenue e un titolo alcolometrico inferiore, ma, per certi versi, attenueremmo anche le peculiarità che si conservano nel Negroamaro vinificato secondo i dettami della DOP».
Il nuovo modo di fare cooperativa di Cantine San Pancrazio
Che a Cantine San Pancrazio sappiano come trattare il vitigno di casa lo garantiscono la professionalità fatta vino di Leonardo Pinto, decano degli enologi pugliesi e padre della nouvelle vague dei rosati salentini, e una spiccata attenzione alla valorizzazione della sua versatilità. «L’ultimo nato nella nostra gamma – conferma fieramente De Leva – è il 961, un passito barricato di 16 gradi fatto di solo Negroamaro, ricavato da uve vendemmiate tardivamente in oottobre, il cui appassimento avviene parte sulla pianta e parte in cassette poste nel fruttaio aziendale, con esposizione a ventilazione naturale». Un vino che rientra nei canoni di quelli da meditazione propriamente detti, nato anche per celebrare i 60 anni di un’azienda da sempre centrale nel tessuto socio-economico del territorio.
«Nel 1961 – ricorda De Leva -, il cavalier Antonio Bianco di Trepuzzi (Le) diede vita alla Cooperativa Produttori Agricoli, insieme con altri tredici agricoltori della zona. Dieci anni dopo venne aperto lo stabilimento di San Pancrazio Salentino, attuale sede aziendale e ispiratore del main brand. L’intento aziendale è stato sempre quello di conciliare la passione per la terra con la voglia di innovazione. Oggi la cooperativa conta circa 300 soci, che coltivano una superficie complessiva di 350 ettari, vitati per l’85% a Negroamaro, dal quale ricaviamo rosati, rossi (classici e Riserva) e uno spumante, in purezza o in blend. Ma abbiamo anche Primitivo, Malvasia Nera e Bianca, Chardonnay, Fiano e Sirah, con cui completiamo una gamma di 20 etichette». L’evoluzione storica della cantina assomiglia a quella di tante altre realtà vitivinicole pugliesi, che sino alla fine degli anni ’90 incentravano la propria produzione sulla quantità, con masse vendute in autocisterne per il taglio di vini altrui, i quali avevano il difetto di nascere poco dotati di corpo e colore. Tutto ciò sino alla rivoluzione della qualità in bottiglia, alla quale si sono convertite anche le società cooperative, un tempo le più ancorate alla vecchia visione. «Stiamo parlando di un mondo che non esiste più – spiega De Leva -, fatto di terreni fortemente parcellizzati e di piccoli agricoltori. Le cooperative che non hanno compiuto il passaggio della valorizzazione in bottiglia, infatti, non sono sopravvissute. Oggi il viticoltore è chiamato a dedicarsi totalmente alla campagna, a professionalizzarsi. Ecco perché anche all’interno di cooperative come la nostra si concentrano grosse proprietà e vanno scomparendo quelle piccole e piccolissime».
La conversione alla qualità non ha avuto difficoltà ad attecchire tra i soci di Cantine San Pancrazio, che ne hanno tratto una maggiore remunerazione e un successo sempre più ampio per le proprie etichette, soprattutto negli ultimi cinque anni. «La cooperativa – ribadisce De Leva – premia la qualità che viene fatta in campagna, tant’è che il primo passaggio che facciamo anche nel processo di vinificazione è la selezione della uve sui ceppi, che distinguiamo secondo la loro più opportuna destinazione alle diverse tipologie di prodotti che realizziamo. In tutti i lavori di campagna, tra l’altro, i nostri soci sono seguiti e indirizzati dai tecnici delle associazioni agronomiche a cui sono iscritti».
Una coerenza di filiera livellata al rialzo che ha convinto anche molti mercati stranieri (alcuni abbastanza insoliti), nei quali l’azienda sanpancraziese colloca la metà della sua produzione. «Riscontriamo una grande risposta nel Sud-Est Asiatico – argomenta il responsabile commerciale -, soprattutto in Vietnam e Cina. Ma andiamo bene anche negli Stati Uniti. In Europa, esportiamo prevalentemente in Svizzera, Germania, Danimarca, Inghilterra, Polonia e qualcosa in Francia».
Proprio all’estero il rosato sta aprendosi un varco sempre più consistente, configurandosi come la nuova sfida dell’enologia salentina.
La degustazione
È del 1616 il pressoché sconosciuto Discorso sopra il bere fresco di Giovanni Battista Berti Romano, un trattatello impregnato di aristotelismo e filosofia naturale, con cui l’autore voleva dimostrare la salubrità delle bevande sorbite a bassa temperatura. Secondo lo scrittore, il corpo ha bisogno di riacquisire la sua necessaria umidità man mano che questa si disperde e il freddo è la condizione efficiente per ripristinarla, poiché «con la sua attività apporta al corpo in un tempo giovamento, e diletto, e la fa penetrare con prestezza, sì che ogni parte ne senta benefizio, quanto le conviene».
Ed ecco che, dopo l’acqua fredda, il corpo cerca, in ordine di gradimento, il vino freddo, che nutre ed è soave, e i frutti freddi, che «ricreano il calor naturale, e pare che insieme si beva, e si mangi».
Rosalbòre è il vino bevi e mangia che sa di frutti, fresco non solo per la temperatura di servizio (10°-12°C), ma anche e soprattutto per la sua tessitura e i suoi sentori. Stappando l’annata 2020, il cerasuolo vivo del suo colore annuncia un cromatismo olfattivo consequenziale: rosa canina, ciliegia e un intrigante fondo erbaceo. Al palato, la ciliegia si accompagna al corbezzolo e al ribes rosso, in un contesto di corroborante acidità. Finale con una nota iodata. La sensazione pseudocalorica che ne determina la persistenza in bocca ricorda appieno la tradizione da cui questo vino proviene.
Da bere come aperitivo, sul finger food, con il sushi o su una pizza gourmet, farcita con gamberetti e granella di pistacchi. Ottimo anche per accompagnare il couscous di pollo e verdure, il guazzetto di pesce, gli straccetti di manzo al pepe rosa o per un fine pasto al pan di zenzero.
Da solo stimola la creatività e il cosiddetto pensiero laterale, in attività come scrivere, comporre, dipingere o, più semplicemente, decorare un ambiente, cimentarsi nell’enigmistica, fare la lista dei regali di Natale.
Indicato come uno dei tre migliori Salice rosati 2020 da Slow Wine, è stato Medaglia d’Oro al Mundus Vini Spring Tasting con l’annata 2019.
Storie di fustigatori e traditori a San Pancrazio Salentino
Sembra avere sempre coltivato il fresco e la meditazione popolare anche il piccolo centro di San Pancrazio Salentino, forse perché è tra i paesi meno piovosi d’Italia, in cerca di ristoro, o forse perché nei suoi geni messapici (i Messapi abitarono il posto dall’VIII al III secolo a.C.) risiede quella saggezza che proviene dal fresco della notte, incarnata in uno dei simboli più amati del paese: la civetta. Per la sua abilità di vedere al buio, infatti, il rapace simboleggia i doni del discernimento e dell’ascolto. Fu un attributo della dea della sapienza Athena, insieme agli alberi di ulivo, le cui chiome ombrose divennero il principale motivo ispiratore della produzione pittorica di Roberto Manni, artista sanpancraziese noto alla scena nazionale del secondo dopoguerra (alcune sue opere sono custodite nel Palazzo Comunale).
Dopo l’età antica e l’abbandono dei casali rurali, il primo nucleo del paese cominciò a formarsi attorno al Palazzo Arcivescovile, fatto costruire dall’arcivescovo Pellegrino d’Asti a partire dal 1221.
Ma il borgo prese a prosperare realmente in epoca rinascimentale, con l’ampliamento dello stesso palazzo nel 1530, ordinato da uno dei personaggi storici in assoluto più influenti dell’epoca, che designò quella dimora a sua residenza estiva, per la salubrità dell’aria, la mitezza del luogo e la sicurezza dell’ubicazione: Girolamo Aleandro, dal 1524 arcivescovo di Brindisi e Oria.
Teologo, umanista, docente e rettore dell’Università di Parigi, amico di Erasmo da Rotterdam e Aldo Manuzio, Aleandro fu il più grande oppositore di Martin Lutero e della sua Riforma. Temutissimo e potente, era stato il maggiore artefice dell’Editto di Worms del 1521, con cui si disponeva la violenta repressione della riforma protestante e la facoltà per chiunque di poter uccidere Lutero, senza subire conseguenze legali.
Divenuto cardinale, nel 1541 Girolamo Aleandro lasciò i titoli di Arcivescovo di Brindisi e barone di San Pancrazio al nipote Francesco, per recarsi a Roma e contribuire alla preparazione del Concilio di Trento.
Erano quelli gli anni in cui la minaccia al mondo cristiano non arrivava solo dall’interno, ma anche dall’espansionismo sanguinario dei cosiddetti infedeli di Oriente. Proprio a San Pancrazio si
conserva la suggestiva testimonianza visiva di un feroce attacco subito dal paese, con dentro la storia tutta locale di un tradimento vendicato. Si tratta di una cronaca pittorica, di probabile fattura seicentesca, posta nella lunetta che sovrasta l’ingresso laterale della chiesetta di Sant’Antonio da Padova, nel centro storico.
La notte del 1° gennaio 1547 sta per compiersi un assalto saraceno alla città di Avetrana. Sopraggiunti con cinque imbarcazioni, circa cento Turchi sbarcano nella vicina marina di Torre Colimena. Li guida un uomo del posto, tal Cria: ha scelto di tradire il suo popolo, consegnandolo al saccheggio ottomano. Il manipolo prende il castello di Avetrana e sta per entrare in città. Ma, come spesso accade, il destino cambia i piani degli uomini. Quella notte Avetrana non dorme: i suoi abitanti festeggiano sino all’alba e i suoni dei tamburelli vengono scambiati dagli invasori per i tamburi battenti di un esercito. Allora Cria, temendo che i Turchi lo ritengano artefice di un’imboscata, sposta il sanguinoso obiettivo di pochi chilometri più a nord, cogliendo nel sonno l’estranea San Pancrazio, che già aveva conosciuto la scimitarra nel 1480. Moltissimi saranno i morti e i deportati, ingenti le razzie e le distruzioni.
Il dipinto procede attraverso un’impressionante sequenza di immagini disposte in senso orario, che si chiude con la raffigurazione della cruenta vendetta perpetrata nei confronti del traditore.
Suggestioni dal fresco: le cripte e le grotte di San Pancrazio Salentino
Prima della formazione del nucleo urbano, San Pancrazio visse una lunga epoca di insediamenti eremitici in grotta: come dire, fresco e meditazione insieme. Di quei tempi restano ancora oggi diversi suggestivi ambienti scavati nella roccia, alcuni pregevolmente affrescati.
Nel comprensorio del santuario di Sant’Antonio alla Macchia, a 3 km dal centro abitato, nello spazio antistante la chiesa intitolata al santo di Padova, si apre l’accesso a una cripta che fu forse dedicata a Sant’Antonio Abate. L’ipotesi è suffragata dall’affresco, ora perso, che ritraeva il santo eremita su una parete dell’ipogeo. Quest’ultimo è una testimonianza dei numerosi stanziamenti di monaci bizantini, che popolarono l’agro di San Pancrazio nell’alto medioevo (dal VI-VII secolo in poi). La cripta, scavata nel tufo per circa due metri, si articola in due vani: uno dedicato alla preghiera ordinaria e l’altro (con un piccolo altare in tufo) destinato alla liturgia. Attualmente gli ambienti appaiono anneriti dai fumi dei lumini devozionali, che per decenni li hanno assiepati.
Pochi metri a destra del santuario è visitabile una grotta naturale di origine carsica, adattata a dimora monastica prima (anche qui sono visibili croci incise) e come frantoio ipogeo in epoca successiva, presumibilmente sino al XIX secolo.
Di particolare interesse per gli stessi motivi è contrada Caragnuli, presidiata dalla masseria omonima.
La zona si caratterizza sia per il pregio paesaggistico sia per quello storico-etnografico. Tappezzata di macchia mediterranea e orlata di uliveti, all’interno di una depressione profonda circa quattro metri, l’area ospita un gran numero di grotte eremitiche (alcune parzialmente interrate), anche queste di età altomedioevale, scavate in quegli stessi banchi tufacei che negli anni alimentarono cave estrattive, ancora chiaramente visibili.
L’insediamento annovera abitacoli di varie dimensioni, tra cui le cosiddette laure, ricoveri singoli dei monaci bizantini. Le mulattiere e i tratturi che li collegano ne permettono la visita, anche a bordo di una bicicletta.
Il vero gioiello di questa collezione di pietra è però la cosiddetta Grotta dell’Angelo, sita nell’area di pertinenza dell’Agriturismo Torrevecchia, poco distante dal centro abitato, ma liberamente visitabile. Si tratta di un ipogeo scavato nella calcarenite, riccamente affrescato all’interno. La conformazione dell’ingresso e l’architrave che lo sormonta fanno pensare a un’originaria tomba a camera di origine messapica.
L’antro venne poi riutilizzato dai monaci bizantini, tra il VII e l’XI secolo. Si ipotizzando anche nuove frequentazioni nel XIII secolo. La grotta è detta dell’Angelo, poiché l’interpretazione popolare per anni attribuì erratamente la figura affrescata a sinistra dell’ingresso a quella di un angelo. Si tratta invece di San Vito Martire, rappresentato in un ricco panneggio damascato, alla maniera bizantina, mentre regge al guinzaglio due cani, di cui solo uno ancora visibile. A sinistra di questo, appaiono porzioni di affreschi, che lo studioso Giuseppe Radaelli ha recentemente identificato come parti di un ciclo agiografico di Sant’Eligio, taumaturgo il cui culto si diffuse in Puglia a partire dal XIII secolo. Sull’altro lato, resta visibile la parte inferiore di una raffigurazione del Supplizio di Cristo.
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