Quella bellezza intemporale e disponibile
L’essenza intima del vino si rivela nell’ossimoro apparente della sua dualità più profonda, la quale è capace di ogni conquista: terreno e trascendente, il vino è sangue e spirito. Come l’arte, che è a un tempo materia immanente e metafisica eterea. Lo ha argomentato bene Émile Peynaud, padre dell’enologia moderna e filosofo di Bacco. «Il grande vino – ha scritto – è un’opera d’arte in evoluzione, mai definitivamente fissata. Finge l’immobilità ed è capace di ingannare il tempo per diversi lustri. La sua finalità è di essere bevuto e di sparire insieme al piacere che procura. È sufficiente che voi possediate abbastanza bottiglie nella vostra cantina per i giorni della vecchiaia, ed esso acquista per voi l’intemporalità della scultura e della pittura o la disponibilità ripetitiva della musica e della poesia».
Forse è proprio per questo arcano in comune che il binomio arte-vino sollecita sempre più frequentemente la sensibilità del consumatore eno-culturale, che viene attratto dai luoghi e dagli eventi in cui i due elementi convivono. Non è un caso, infatti, che molte importanti aziende vitivinicole, dagli Stati Uniti al Canada alla Francia, abbiano investito sull’arte contemporanea, chiamando archistar del design a progettare le proprie strutture aziendali o trasformando parti delle stesse in vere e proprie gallerie, con dipinti, foto d’autore, sculture, installazioni e performance, tra mostre temporanee e allestimenti permanenti. Anche l’Italia non è estranea a questa tendenza, seppure solo dalla Toscana in su: diversi big player del vino hanno deciso di ospitare e finanziare l’arte contemporanea, alcuni dei quali facendo appello a un mecenatismo storico di famiglia (Antinori, Frescobaldi).
Ma anche sotto la linea gotica qualcosa si muove, grazie a un’azienda e a un paese che con l’arte contemporanea sembrano avere uno speciale feeling, tanto da coincidere in un’unica destinazione: Cantina Moros di Claudio Quarta Vignaiolo, Guagnano, 22 km a nord-ovest di Lecce.
Claudio Quarta, il coraggio della passione
“Un Vigneto, una Cantina, un Vino” è la traccia di un progetto vitivinicolo che risponde al nome di Moros e che fatalmente richiama alla mente proprio l’unicità dell’opera d’arte. Ne è autore il leccese Claudio Quarta, che su questo concetto ha costruito una cantina-scrigno a Guagnano, esclusivamente dedicata alla produzione di un cru Riserva di Salice Salentino DOP e alla custodia di arte e storia. «La cantina salentina – spiega l’illuminato produttore – idealmente è uno degli acini del grappolo stilizzato che corona il marchio Claudio Quarta Vignaiolo. Attualmente si accompagna a Tenute Eméra di Lizzano (Ta) e a Cantina Sanpaolo di Tufo (Av). E ad altri acini di cantine che verranno in futuro».
La storia di questa azienda tripartita nasce nel 2005 e coincide con la “seconda vita” del suo fondatore, che dagli Stati Uniti lascia la poltrona di top manager della Vicuron Pharmaceuticals per tornare nella sua Puglia e dedicarsi professionalmente a una passione indomita: il vino che sa di territorio. «Nel pieno della mia carriera di biologo genetista e microbiologo ricercatore nel Centro Ricerche di Gerenzano (Va) – racconta Quarta -, nel 1996 guidai un’operazione di management-buy-out, attraverso cui io e altri dirigenti acquistammo il Centro stesso, che era destinato alla chiusura. Fondai così una società di biotecnologie farmaceutiche, la Biosearch Italia, che divenne la prima biotech company a quotarsi sul Nuovo Mercato Italiano. Successivamente, il nuovo assetto dell’economia mondiale generatosi dopo l’11 settembre portò la società a una fusione con un partner americano, la quale diede vita alla Vicuron, quotata al Nasdaq di New York, oltre che in Italia».
L’indole del condottiero avvezzo a scelte coraggiose veniva in quegli anni sempre più provocata da ciò che Quarta mestamente si ritrovava nei suoi calici a stelle e strisce. «Notavo che gli Americani erano abituati a vini marmellata, con scarsa varietà di sentori e omologati tra loro. Nella mia testa faceva da contraltare il ricordo emotivo dei vitigni e dei vini della mia terra di origine, che ancora non avevano fatto breccia – come oggi – tra i consumatori statunitensi. Decisi così che mi sarei dedicato esclusivamente a un sogno che ormai era diventato più che un desiderio: produrre vini che valorizzassero tradizioni e culture dei nostri territori e raccontassero quello che io definisco il Sud che emoziona».
L’avventura cominciò nel segno dei grandi rossi, con l’investimento a Lizzano, nella terra del Primitivo. Lì Quarta acquistò 80 ettari di terreno, di cui 50 vitati, e una casa rurale storica, appartenuta a Francesco Saverio Nitti, primo Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Italia post-unitaria. Nacque così Tenute Eméra, a cui seguì di lì a poco la fondazione di Cantina Sanpaolo, nell’omonima contrada di Tufo, dove Quarta trasforma le uve selezionate di coltivatori locali, per produrre pregevoli bianchi di vocazione (Greco di Tufo, Fiano di Avellino e Falanghina) e rossi altrettanto tipici (Aglianico e Taurasi).
Infine, nel 2012, la riappropriazione – sentimentale, ma moderna – del Salento e del Negroamaro, con il citato progetto di reductio ad unum targato Cantina Moros, evocato anche nell’etichetta del suo vino, la quale riproduce il mappale catastale del terreno-cru. «A Guagnano – ribadisce Quarta – ho recuperato e valorizzato un opificio vinicolo degli anni ’50, facendone la casa di un unico vino, il Salice Salentino DOP Riserva Moros, ricavato da un unico piccolo vigneto di poco più di 1 ettaro, poco distante dalla cantina, fatto di alberelli di Negroamaro ultrasessantenni e pochi ceppi di Malvasia Nera. In origine l’opificio produceva 20mila ettolitri l’anno di vino, oggi è una boutique winery da soli 50-70 ettolitri».
Moros ovvero la mitologia del contrario
Vista dall’esterno, per certi versi quella di Moros appare un’operazione controcorrente, l’ennesima sfida (vinta) di Claudio Quarta. A partire dal nome, che nella mitologia greca è attribuito alla personificazione del destino avverso e ineludibile, quello già scritto per ogni essere mortale e no. Nella sua genealogia figurano le sorelle Eméra (come la cantina primogenita di casa Quarta), divinità del Giorno, e le ninfe Esperidi, custodi della natura fruttifera.
Con il suo Salice Salentino, Claudio Quarta è stato capace di convertire il mito di Moros nel suo contrario, avvicinandolo alla luce delle sorelle, quasi fossero quel vino e quella cantina la migliore compensazione di ciò che può apparire ineluttabile solo a chi non sa vedere oltre.
«L’identità di Moros è la sua unicità – sostiene Quarta -, capace di rivelarsi in sole 6-10mila bottiglie, che per il 60% raggiungono i mercati stranieri, soprattutto Svizzera, Germania e Stati Uniti. La selezione dei grappoli durante la vendemmia manuale, insieme alla resa molto bassa delle piante, conferisce un’altissima qualità al vino. Le uve di Negroamaro (l’apporto della Malvasia Nera è quasi simbolico) vengono lavorate delicatamente e il vino prodotto viene fatto maturare per 18 mesi in barrique francesi nuove, di media tostatura. Segue poi un periodo di affinamento in bottiglia di 9 mesi».
Sarà per tutta questa bellezza che la scrittrice Annalisa Bari ha dedicato al vino Riserva di Quarta l’invenzione letteraria di un mito eponimo rifondato, in cui Esperia trasforma in rigoglioso vigneto dall’imperitura squisitezza vinifera il campo selvatico di bacche amare che il fratello Moros aveva scelto come esilio volontario, al fine di tenere lontana da ogni essere quella sua carica dispensatrice di avversità.
Cantina Moros, germinazioni e radici
E c’è arte non solo nella narrativa che questo vino ha ispirato, ma anche e soprattutto nel luogo in cui il nettare prende colore, profumi e sapori. «A differenza delle altre due – precisa Quarta -, ho voluto rendere questa cantina un luogo di arte e di storia, senza con ciò fare torto alcuno alle cantine di Lizzano e di Tufo. Lì, infatti, la bellezza è nella natura stessa che circonda gli opifici: basta questo per considerarli attrattivi. A Guagnano, invece, siamo al centro del paese e il vigneto, seppure poco distante, non si vede dalla cantina. Abbiamo quindi portato la bellezza al suo interno, grazie alla mia fraterna amicizia con il noto artista contemporaneo Ercole Pignatelli, oggi ottantaseienne».
Dopo aver lasciato giovanissimo la sua Lecce per Milano, Pignatelli ha vissuto da protagonista il fermento culturale della Brera degli anni ’50 e ’60, entrando in diretto contatto con personalità del calibro di Salvatore Quasimodo, Ugo Mulas, Milena Milani, Piero Manzoni, Giorgio Kaisserlian, Dino Buzzati e Lucio Fontana. Con quest’ultimo, in particolar modo, consolidò un legame artistico che durò sino alla sua morte, nel 1968.
Nome di spicco della cultura figurativa italiana ed europea, Pignatelli ha esposto e diffuso la sua arte in tutto il mondo. Poi, nel nuovo millennio, l’incontro prolifico con Claudio Quarta, che si fa mecenate della realizzazione di una sua significativa opera, donata al Comune di Lecce nel 2010: Germinazione, l’enorme scultura alta più di 12 metri, che ingentilisce l’ingresso in città dalla superstrada che collega il capoluogo salentino a Brindisi. È l’inizio di un progetto artistico sul concetto visivo di groviglio vitale, che nasce e conquista lo spazio attorno a sé. Seguiranno, infatti, Germinazioni 2, per il Palazzo della Regione Lombardia a Milano, e Germinazioni 3, l’enorme murale tridimensionale di 60 metri quadrati che campeggia proprio nella sala convegni di Cantina Moros, punto di approdo ideale di un percorso visivo tra diversi altri dipinti di Pignatelli, i quali punteggiano gli ambienti della cantina, facendone una piccola galleria d’arte contemporanea.
A maggio 2019, inoltre, lo stabilimento guagnanese ospitò la presentazione di Attese, un personale omaggio editoriale di Pignatelli a Lucio Fontana, pubblicato in 99 esemplari con numerazione progressiva araba più 9 esemplari con numerazione romana, contenente anche quattro linoleografie a colori. Qualche anno prima, invece, il Maestro aveva messo mani al disegno di un logotipo per la collezione Vite d’Artista, con la quale Claudio Quarta ha contrassegnato due serie di etichette prodotte in edizione limitata, dedicate ad altrettanti artisti contemporanei: la prima a Pignatelli stesso, con la riproduzione della sua Proliferazione, la seconda all’architetto e designer Fabio Novembre, attraverso un soggetto firmato dal noto illustratore Emiliano Ponzi.
E poi ancora tanta arte sotto le volte delle vecchie cisterne vinarie di Cantina Moros, adibite a bottaia e a luogo del bello, grazie alla sensibilità del titolare d’impresa e della figlia Alessandra, coautrice di questa magnifica liaison tra produzione vinicola e arte. Negli anni sono passati da qui in mostra l’espressività materica di Mario Schiavone, lo stone painting fotografico di Roberto Tondi, gli scatti di Bruno Barillari, Andrea Ciccarese e Alessandra Tommasi, le riprese del video di una composizione musicale e coreutica dell’Ensemble Tito Schipa.
«Credo moltissimo – afferma Claudio Quarta – al connubio tra arte e vino, per la capacità di entrambi di ispirare l’essenza creativa dell’uomo e reinterpretare il rapporto con la terra».
Un rapporto che passa anche attraverso l’eredità che deriva dal passato. Dalla Casa d’Aste Pandolfini di Firenze, nel 2008 Quarta ha acquistato una serie di reperti archeologici magnogreci (ceramica apula) e romani, in gran parte riguardanti il mondo del vino, facendone un suo personale Museo del Simposio, ospitato in maniera permanente sempre nelle cisterne sotterranee di Cantina Moros. «È fondamentale che il museo sia situato sotto il piano di superficie, perché quei reperti rappresentano le nostre radici. Oggi siamo quello che siamo per quello che eravamo. È importante ricordarselo sempre, entrandoci in contatto ogni giorno. Ormai sappiamo che le radici delle piante non sono solo utili a fornire acqua e sali minerali: esse, infatti, inviano dei mediatori molecolari ovvero dei messaggi, dei segnali alle foglie, influenzandone così la crescita. Ciò che vediamo delle piante in realtà è determinato in grossa parte dalle radici. La stessa cosa accade per l’uomo».
La degustazione
Secondo Claudio Quarta, «il vino un po’ è un’arte, una celebrazione delle bellezze del territorio». Lo si percepisce immediatamente anche nella tavolozza sensoriale di Moros. L’annata 2017 riempie il calice di un rosso porpora netto, capace di serrare la luce nella densità dei suoi 15 gradi. Al naso primeggia l’effluvio di marasca sotto spirito, seguito da speziature di chiodo di garofano e tabacco e da note boschive di castagna. In coda, un respiro balsamico. Al palato, la corpulenza strutturale è mascherata da una freschezza viva, in equilibrio con i tannini nobilitati dal legno, il quale torna a farsi sentire attraverso un fondo di cioccolato. Nel finale, l’amaricato varietale del Negroamaro ricorda la retro espressione ruvida della melagrana.
A tavola Moros entusiasma con le pappardelle al ragù o ai funghi, con i sartù di riso e salsicce, sui brasati e sui roastbeef.
Nel medagliere dell’annata, brilla il massimo riconoscimento della guida Vitae dell’Associazione Italiana Sommelier (4 viti). Di prestigio anche i 4 grappoli assegnati da Bibenda e i 2 bicchieri di Gambero Rosso.
Guagnano come Barcellona: l’eclettismo modernista di Vincent Brunetti e Orodè Deoro
All’esordio di queste righe si accennava a una meravigliosa coincidenza di mete, sulla via dell’arte contemporanea: la destinazione è Cantina Moros, la destinazione è lo stesso paese di Guagnano.
Nel piccolo borgo, abitato da meno di 6mila anime, all’eleganza formale delle centrali chiese settecentesche corrisponde, infatti, un opposto astorico, sfolgorante ed eccentrico, che si è andato a formare nella periferia guagnanese a partire dalla metà degli anni ‘90, grazie all’impulso creativo e visionario del pittore e scultore Vincenzo Maria Brunetti, noto a tutti come Vincent. Un luogo che proprio per la sua fantasmagoria è stato scelto come set per il videoclip di Karaoke, hit estiva 2020 di Alessandra Amoroso e Boomdabash.
Oggi 71enne, negli anni ’70 Brunetti frequentò l’Accademia di Brera sotto la guida di Francesco Messina (uno dei più grandi scultori figurativi del ‘900), facendosi apprezzare non solo tra gli intellettuali, ma anche dalla città stessa, che gli conferì l’Ambrogino d’Oro nel 1970. Furono suoi mentori Giacomo Manzù e Arnaldo Pomodoro, che lo accolse nel suo atelier. Tra le sue collaborazioni transartistiche, furono particolarmente importanti quelle con l’attrice Paola Borboni e con il poeta Bruno Villar.
Tornato nella sua Guagnano per scelta esistenziale, servendosi di materiali di recupero, Vincent ha costruito lì una cittadella-museo, straniante e coloratissima, che suggerisce il paragone con il Parc Güell di Gaudì a Barcellona, in ragione dell’impronta modernista delle strutture e della ricchezza dei mosaici disseminati in tutta l’area.
Sono proprio gli oltre 250 metri quadrati di superficie musiva, distribuiti in una trentina di opere, il contenuto artistico più strabiliante dell’Eremo di Vincent o Vincent City. Li ha realizzati dal 2000 al 2004 il mosaicista tarantino Orodè Deoro, con un uso prevalente di grandi tessere in ceramica, anche di forma curva, affiancate ad altre materie come il gres, i sassi, gli specchi e il cemento. «Ho scelto la ceramica – spiega lo stesso Deoro – perché solo la ceramica mi permette di tirar fuori la mia idea pittorica di mosaico. Cerco di utilizzare il minor numero di tessere possibile nella creazione di un corpo, di un viso». Il tutto sortisce un esito alquanto singolare, non solo nella forma, ma anche nei soggetti e nel trattamento (temi sacri trasfigurati, introduzione di nuovi simbolismi, reminiscenze fumettistiche, espressionismo, pop art). Un’originalità colta anche dalla critica d’arte Alessandra Radaelli, che ha scritto: «Orodè sta facendo un lavoro pressoché unico nel panorama italiano. La pratica del mosaico assume nelle sue mani un volto attuale, pop nelle cromie ma potente nei contenuti: i riferimenti vanno dal classico ai maestri del contemporaneo».
Auto-referenziatasi come “Regno senza sudditi” con un solo abitante-re e “Luogo di bellezza e di rilassamento psicologico”, la cittadella eclettica di Vincent accoglie gratuitamente circa 15mila visitatori l’anno, per i quali Brunetti si esibisce in performance catartiche a ritmo di musica techno e creazioni pittoriche estemporanee.
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