Cantina D’Alfonso Del Sordo: Il patrimonio genetico di San Severo
Lo storico Fernard Braudel sosteneva che l’asse dell’equilibrio vitale del Mediterraneo passa da sempre attraverso la triade ulivo-vite-grano. C’è da scommettere che nella considerazione dell’accademico francese non ricadesse solo l’equilibrio identitario del paesaggio e della produzione agricola, ma anche il portato delle civiltà, dei commerci e, in definitiva, degli scambi di pensiero, che quella terna fondativa ha generato nel corso dei millenni. Le migrazioni indoeuropee, l’antico Egitto, l’egemonia ellenica, Roma, il vicino Oriente, la diaspora bizantina e molto altro ancora hanno costituito il concetto stesso di Mediterraneo ben al di là dei suoi elementi naturali, con i quali peraltro le componenti culturali intrattengono un eterno dialogo di mutua influenza. Mohammed Bennis, poeta marocchino tra i più tradotti in Europa, assegna la cittadinanza di ogni nuova ispirazione proprio alla koinè, storica e trascendente, che affiora sulle onde dei tempi del mare nostrum: «Ogni volta che lo spirito poetico sembra compromesso, le lettere, le arti, le dottrine filosofiche, mistiche e scientifiche mi conducono verso un Mediterraneo di ospitalità».
Basterebbe puntare il dito a caso sulla cartina geografica del grande bacino per trovare, sempre e comunque, tracce più o meno evidenti di questo tessuto connettivo dai pori aperti. Ciò nondimeno la meta di queste righe non è casuale, ma risponde alla scelta di trattare di un Mediterraneo senza mare, come è nel patrimonio genetico di molti luoghi che perpetuano i tratti di questa appartenenza.
Siamo a San Severo, città d’arte nel cuore della Capitanata, centro paradigmatico della triade agraria di Braudel. La tradizione vuole che la città sia stata fondata con il nome di Castrum Drionis (poi Casteldrione) dall’eroe greco Diomede, re di Argo, reso celebre dall’epica classica per essersi distinto valorosamente tra le fila achee nella guerra di Troia. Un’antica leggenda vuole che sia stato proprio lui a portare dall’Asia Minore in terra dauna alcuni tralci di Uva di Troia e che questi abbiano poi attecchito sulle sponde dell’Ofanto.
Le tracce storiche della Cantina D’Alfonso Del Sordo
Le tracce storiche, in realtà, collocano la nascita dei primi casali attorno all’attuale nucleo urbano nell’alto medioevo, tra l’età longobarda e quella bizantina, con un progressivo sviluppo in epoca angioina e una vera e propria fioritura nel XVI secolo. Nei primi decenni del Cinquecento, infatti, San Severo ricevette l’autonomia amministrativa direttamente dall’imperatore Carlo V, che ne affidò la guida a ventiquattro famiglie del posto, organizzate nel cosiddetto Regime dei Quaranta. Nel corso del secolo, la città diventò un importante snodo commerciale, soprattutto grazie alla presenza di un grande fondaco, una sorta di magazzino per lo stoccaggio delle merci, atto anche ad ospitare i mercanti di passaggio. I fondachi erano edifici tipici delle maggiori città marittime del Mediterraneo e delle Repubbliche Marinare. La presenza di una struttura di questo tipo a San Severo è riconducibile all’egida di Venezia, che attraverso il porto fluviale del Fortore teneva aperti i canali commerciali con il Regno di Napoli, nel quale la città dauna andava accreditandosi come uno dei maggiori centri, anche sotto l’aspetto della vivacità culturale. Nel 1579, poi, San Severo diventò un Principato della nobile famiglia Di Sangro, i cui componenti acquisirono per questo l’appellativo di Principi Sansevero, gli stessi che due secoli più tardi furono committenti dell’omonima Cappella di Napoli, in cui è custodito il celeberrimo Cristo Velato del Sammartino.
E il ‘700 ha costellato di splendide chiese e architetture barocche anche la città della Capitanata, che ancora oggi racconta quel suo Mediterraneo in assenza di mare.
Catapanus, il bianco pugliese che aspira alla longevità
Di origine mediterranea, forse spagnola, è anche il Bombino Bianco, vitigno diffuso in tutto il Mezzogiorno d’Italia, ma che a San Severo esprime una sua particolare tipicità in spumanti e in vini bianchi rinomati, come il Catapanus (nome di derivazione bizantina per nulla casuale) di D’Alfonso Del Sordo, a denominazione Puglia IGP. Lo sa bene Gianfelice, ultimo rampollo della storica casa vinicola, nata nel 1860 dall’unione (per via adottiva) delle due famiglie rappresentate nell’attuale cognome, di cui una (Del Sordo) di antico lignaggio baronale. «La vecchia DOC San Severo – racconta – è stata la seconda in assoluto ad essere istituita in Italia, dopo la Vernaccia di San Gimignano. In origine, la DOC univa in un bianco di tradizione il Trebbiano, la Malvasia e appunto il Bombino. Per questo motivo, nei nostri campi di Tenuta Coppanetta abbiamo ancora 15 ettari allevati a tendone pugliese, con la coabitazione di questi tre vitigni. In seguito, la revisione del disciplinare del 2010, per quanto riguarda i bianchi, ci ha permesso di usare gli stessi vitigni anche in purezza, tra l’altro consentendo di allargare la scelta alla Falanghina. Il nostro Catapanus nacque prima della riforma, per questo è un’IGP. Ma ci stiamo avviando a produrlo come DOP». Per un’estensione di altri 25 ettari, dislocati anche nel secondo sito di Tenuta Cotinone, completano le superfici vitate dell’azienda il Montepulciano, l’Uva di Troia, il Moscato e la Falanghina.
Proprio quest’ultima, negli scorsi anni, ha costituito un fortunato terreno d’incontro tra D’Alfonso Del Sordo e la star degli enologi Luigi Moio, autorità indiscussa dei vitigni campani. «Un po’ di tempo fa – spiega Gianfelice – riscontrammo che nella nostra zona stava crescendo l’interesse per la Falanghina, per via del fatto che abbiamo dei terreni di composizione calcarea, molto simili a quelli campani, perciò adatti a questo vitigno e allo sviluppo dell’acidità, che è una delle caratteristiche che più lo contraddistingue».
L’acidità èA una marca identitaria anche del Bombino Bianco, che in casa D’Alfonso Del Sordo si vendemmia nell’ultima decade di settembre, soprattutto per garantire struttura al prodotto in purezza. «Originariamente non si capiva bene quale fosse la sua migliore epoca di maturazione. Infatti, veniva raccolto presto, perché spesso veniva spedito a vinicole del nord Italia, che lo utilizzavano come base per spumanti commerciali. Poi si è compreso che il vitigno riesce a conservare molto bene l’acidità sino a una possibile raccolta di fine settembre, che nel contempo permette di far maturare anche l’espressione di un buon corpo». Nel caso del Catapanus, il titolo alcolometrico volumico si aggira attorno al 13%. «Nella scheda di presentazione del vino – aggiunge Gianfelice – abbiamo deciso di non riportare questa voce, perché la natura cambia il dato di annata in annata, con valori che di volta in volta vanno dal 12,50% al 13,50%».
Ciò che resta fedele negli anni è la qualità di base di questo vino, prodotto in 25mila bottiglie e capace di durare nel tempo, a tal punto da diventare motivo di aneddoto. «Un mio cliente, che ha una cantina ricavata in una grotta alle pendici del Gargano, mi ha fatto assaggiare dei Catapanus del 2008, rivelatisi in perfetto stato di conservazione, con un’evoluzione marcata verso sentori di frutta matura e di anice. Recentemente ho assaggiato con soddisfazione un 2017. In definitiva, possiamo affermare che questo vino sta riuscendo a superare senza contraccolpi i tre anni di vita, che per un bianco pugliese è un dato di sicuro interesse».
Sono bottiglie che viaggiano in tutta Italia (maggiormente in Puglia e nelle aree metropolitane di Roma e Milano), ma anche all’estero, dove tra Belgio, Olanda, Germania, Inghilterra, Giappone, Stati Uniti e Australia viene commercializzato il 40% dell’intera produzione D’Alfonso Del Sordo. «Sia il Catapanus sia i nostri Nero di Troia sono i vini che esportiamo di più in Australia e negli USA, perché con loro viaggia anche la tipicità del vitigno autoctono, vero e proprio valore aggiunto per il consumatore straniero».
La degustazione
Firmato dall’enologo Cristiano Chiloiro, il Catapanus 2020 è un tuffo nel Mediterraneo più placido. Nel calice il vino splende di un giallo paglierino diafano. Il bouquet olfattivo è dolcemente floreale, con sentori di camomilla e biancospino, a cui seguono note fruttate di albicocca e clementina e un accenno di fieno secco. Pur in presenza di una discreta struttura, al palato si avvertono buona freschezza e morbidezza gentile, mentre l’apporto minerale appare misurato.
A tavola può accompagnare pesce e crostacei. Particolarmente gradevole negli aperitivi con cocktail di gamberi o scampi.
Nel 2016 il Catapanus ha ricevuto un giudizio di 88 punti su 100 dalla prestigiosa rivista statunitense Robert Parker’s Wine Advocate. Recentemente l’annata 2019 è stata insignita del Premio Berebene 2021 di Gambero Rosso per il giusto rapporto qualità-prezzo.
Di arte e di lettere
Il Tavoliere e il Gargano sono un concentrato di mediterraneità che echeggia anche nelle opere di alcuni importanti protagonisti della cultura di San Severo. Come Luigi Schingo, pittore e scultore che ha attraversato il ‘900, raccogliendo il favore di personaggi come la regina Elena di Savoia e l’architetto Cesare Bazzani, progettista dei più imponenti e significativi edifici costruiti in tutta Italia sotto il regime fascista. Quest’ultimo volle posizionare alcune tele di Schingo proprio nel bellissimo teatro di San Severo, di cui sopraintese il rifacimento dal vecchio Teatro Real Borbone al nuovo Teatro Comunale del Littorio, poi rinominato con l’attuale denominazione di Teatro Verdi. «Uno dei teatri più belli e moderni che vanti l’Italia», lo definì il compositore foggiano Umberto Giordano.
Nelle opere di Schingo il paesaggio è una categoria dell’anima. E non sfuggono a questa concezione anche i frutti della terra e il lavoro dell’uomo, come l’Uva Bianca e la Vendemmia, entrambi temi salienti della vita sanseverese. Di tutto ciò è possibile avere diretta ammirazione visitando la Pinacoteca che il Museo dell’Alto Tavoliere (MAT) di San Severo ha intitolato all’artista.
Proprio il MAT, che custodisce anche una collezione archeologica di reperti che vanno dal Paleolitico all’Età Romana, ospita un vivacissimo centro di documentazione dedicato ad Andrea Pazienza, poliedrico intellettuale originario di San Severo, scomparso precocemente nel 1988 a soli 32 anni. Fumettista, poeta, scrittore e sceneggiatore, nelle sue visioni oniriche e controcorrente non fu immune dallo spleen mediterraneo, diluito in un onirismo fluttuante, come le onde di quel «mare olio» – il suo Adriatico – in cui, su tavole disegnate, un giorno sognò di avventurarsi, a bordo di un pattino «azzurro e bianco, con su scritto Sud Est».
Ma San Severo è anche terra di lettere e di letterati. A cominciare da Alessandro Minuziano, noto umanista, attivo come stampatore tra il ‘400 e il ‘500. Tra le altre edizioni, a lui si deve la pubblicazione dell’Opera omnia di Cicerone, nel 1498. La città gli ha intitolato la biblioteca civica.
Non si può poi non ricordare l’affetto, totalmente ricambiato, che ebbe per San Severo Francesco De Sanctis, scrittore e padre nobile della critica letteraria italiana. Eletto deputato nel collegio sanseverese nel 1866, nel suo Viaggio elettorale scrisse che nella città dauna poteva contare su «un nido riposato e sicuro, là stimato da tutti, amato da molti».
Una sensibilità spiccata per la letteratura e i suoi autori che San Severo perpetua ancora oggi. Recentemente, infatti, l’Amministrazione Comunale ha istituito le cosiddette panchine letterarie (in cemento pittoricamente decorato, a forma di libro), per celebrare pagine e scrittori che hanno lasciato il segno. Uno di questi è particolarmente caro a Gianfelice D’Alfonso Del Sordo, per aver saputo raccontare, seppure con disillusa amarezza, il Meridione contadino del secondo dopoguerra. Un Ignazio Silone pugliese. «Parliamo di Nino Casiglio, scrittore e militante socialista, che è stato anche sindaco di San Severo. La biblioteca “Minuziano” conserva molti suoi libri e anche qualche inedito. Nelle sue opere ha affrescato le origini contadine del nostro territorio, soffermandosi molto sugli aspetti sociali della condizione bracciantile. Il suo romanzo più indicativo, in questo senso, è stato Acqua e sale, con il quale vinse il prestigioso Premio Napoli nel 1977. Già il titolo ricorda il pranzo povero dei contadini, in pausa durante il lavoro nei campi: una brodaglia di acqua, sale, pomodoro e pane raffermo, che ancora oggi conserva il suo fascino di tipicità». Gianfelice, che è anche vice presidente del Movimento Turismo del Vino di Puglia, ricorda le forme in cui questa pietanza ancora viene proposta. «Durante le sagre che si tengono nella nostra città, l’acquasale viene accompagnata dai nostri bianchi e rosati, mentre i rossi innaffiano le interiora di carne, cotte alla brace». Potrebbe capitare di fare questi assaggi anche nel corso delle iniziative di enoturismo direttamente organizzate dalla cantina D’Alfonso Del Sordo. Come Vigna Bike, un evento proposto periodicamente, caratterizzato soprattutto dal tour in mountain bike dei vigneti dell’azienda.
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