Il prima e il dopo
È una fredda giornata d’inverno del 1891. Nelle campagne di Cerignola le vigne combattono un’impari guerra di resistenza contro la peronospora e la fillossera, che di lì a poco sfocerà in una crisi della viticultura senza precedenti. In una chiesa del borgo si celebra il battesimo del piccolo Edoardo, nato il 3 gennaio. Papà Pietro e mamma Lina gli hanno dato il nome dell’illustre uomo di cultura chiamato a fare da padrino, l’editore milanese Sonzogno, noto anche per aver pubblicato in Italia i giovani compositori francesi Bizet e Massenet. Con loro, lo scrittore e librettista Nicola Daspuro, biografo di Enrico Caruso.
Sembra passata un’eternità da quando, tre anni prima, Pietro e Lina erano convolati a nozze nell’allora cattedrale di Cerignola, in notevoli difficoltà economiche, con lei incinta del primogenito, che sarebbe morto a soli quattro mesi di vita. Ora è tutto diverso: Pietro è all’apice della sua fortuna professionale ed economica e le alte personalità della musica operistica che lo circondano nel giorno del battesimo del figlioletto ne danno testimonianza, rendendogli onore in una chiesa di paese, nel profondo sud post-unitario.
I festeggiamenti esterni si estendono ben oltre il triduo, con concerti, mostre, eventi vari e, soprattutto, spettacoli pirotecnici.
Il prima e il dopo del periodo dauno del grande Pietro Mascagni è tutto in queste due istantanee da cerimonia. In mezzo, il successo immortale del suo capolavoro, Cavalleria Rusticana, scritto febbrilmente tra il luglio del 1888 e il maggio del 1889. Proprio nella modesta casa di Cerignola, odiosamata quanto Recanati lo fu per Leopardi.
Il genio livornese vi si stabilì nel 1886, con la compagna Lina Carbognani, che poi diverrà appunto sua moglie. All’epoca era un musicista spiantato, al seguito della compagnia di giro del capocomico Luigi Maresca. L’allora sindaco di Cerignola Giuseppe Cannone gli offrì l’incarico di direttore della neonata Filarmonica del paese e la possibilità di arrotondare con qualche lezione privata. Lui accettò, forse per mettere fine a quella che riteneva una «schifosa vita nomade di saltimbanchi» e abbracciarne un’altra che, almeno sino al trionfo di Cavalleria, gli avrebbe riservato non meno ristrettezze. Restò nel piccolo centro del Basso Tavoliere sino al 1895, alternando ripetute insofferenze, per l’asfittica dimensione contadina del paese, con il conforto di genuine amicizie e semplici soddisfazioni. Come quella di aver portato i 40 allievi della Filarmonica, dopo appena 72 giorni di approccio agli strumenti, a eseguire insieme in chiesa tre suoi pezzi e una romanza di Carl Maria Von Weber.
Come nella vita di Mascagni, c’è un prima e un dopo anche nelle campagne di Cerignola e non solo. Quell’emergenza fitosanitaria che travolse le viti a fine ‘800 fu risolta ovunque dall’avvento dei resistenti portainnesti americani, alla base della viticultura moderna. Di lì in avanti l’agro dauno consolidò il suo potenziale di vocazione, con la progressiva valorizzazione delle colture autoctone: il grano, la varietà olivicola Bella di Cerignola, l’Uva di Troia. Nel secondo dopoguerra, poi, le lotte contadine cambiarono la storia del bracciantato e della mezzadria, sotto la guida del cerignolano Giuseppe Di Vittorio, uno dei padri del sindacalismo moderno.
Vinicola Mastricci, dalla tradizione alla qualità
Una cesura evidente tra passato e presente compare anche nella storia della Vinicola Mastricci, che nel 2005 ha cambiato verso a una tradizione imprenditoriale familiare partita nel 1950. Il prodotto sfuso e le grandi cisterne hanno lasciato il posto all’imbottigliato, nel solco di processi agricoli e di vinificazione completamente votati alla qualità.
«Il controllo della produzione parte già dal vigneto, dove seguiamo attentamente lo stato di sanità e maturazione delle uve, le quali si esprimono al meglio nei nostri terreni caldi e ventilati della Capitanata», spiega Antonio Mastricci, che conduce l’azienda con il fratello Giuseppe. Il riferimento è ai 35 ettari vitati a Chardonnay, Trebbiano, Sangiovese, Primitivo, Negroamaro e Uva di Troia, che danno anima a una gamma di etichette abbondantemente assortita, tra bianchi, rossi e rosati.
«Seppure proveniente da una tradizione sessantennale, la nostra è una realtà giovane – continua Antonio -, per questo il mercato che ci vede maggiormente presenti è quello nazionale. Non mancano, però, piccole esportazioni in Germania, Repubblica Ceca e a New York». Sentire citare la Grande Mela riporta alla memoria il link aperto nel 1878 dal cerignolano Achille La Guardia, anch’egli musicista come Mascagni. Emigrato negli Stati Uniti, si coprì di gloria come direttore della banda dell’11° Reggimento di Fanteria dell’Esercito a stelle e strisce. Anche se, in verità, la sua notorietà è più strettamente legata al figlio Fiorello, per tre mandati primo sindaco italo-americano di New York (che gli ha intitolato l’aeroporto), amato per le sue azioni riformatrici e l’ostinazione antifascista e antinazista. Ma questa è un’altra storia: con Mastricci vogliamo parlare di vino, anzi del vino. Perché il Nero di Troia qui è un vero e proprio genius loci, ritrovato in tutto il suo potenziale qualitativo, dopo gli anni dei grandi quantitativi da taglio.
SoloNero per sempre
La storia sembra la stessa del Primitivo. Tirato fuori dal dimenticatoio alla fine degli anni ’90, ora proprio con il Nero di Troia forma la coppia dei rossi pugliesi osannati in tutto il mondo. Coppia non gemella, però, si affretta a spiegare Mastricci, che coltiva entrambi i vitigni e ne mette in bottiglia il nettare. «Premetto che la mia esperienza e il parallelo che posso azzardare si riferiscono ovviamente al Primitivo coltivato in Daunia: quello di Manduria e del Salento è ben altra cosa. In questo senso, posso dire che il Nero di Troia si sposa benissimo con le carni rosse e con gli stufati, molto più dell’altro rosso. Questo perché ha la capacità di lasciare il palato abbastanza asciutto, anche su carni grasse. Probabilmente la ragione di ciò è dovuta al fatto che il Nero di Troia ha tannini che durano nel tempo ovvero che si ammorbidiscono più lentamente. Anche l’unghia violacea appare più carica di intensità rispetto a quella del Primitivo».
L’Uva di Troia, in purezza o in blend, è in almeno sei etichette della gamma Mastricci, interamente firmata dall’enologo Luca Pugliese. Tra le più fortunate il SoloNero, un Nero di Troia IGP al 100%, con passaggio in barrique. «Ne produciamo 20mila bottiglie. Facciamo una vendemmia tardiva, nella seconda decade di ottobre, poiché è giusto che questo tipo di uva resti sulla pianta sino al raggiungimento di un grado zuccherino ottimale. Quando i grappoli arrivano in cantina vengono immediatamente diraspati e l’uva passa alla macerazione in vinificatori a temperatura controllata (24°-25°C circa), dove rimane dieci giorni. Poi si passa alla pressatura soffice e successivamente all’affinatura in barrique francesi di primo passaggio, per circa sei mesi. Dopo aver sostato nel legno il vino appare un po’ snervato, a causa dei processi di filtrazione e microfiltrazione. Ma noi vigiliamo attentamente sull’evoluzione dei tannini e sull’acidità totale, parametro tipicamente importante nell’Uva di Troia. Per questo concediamo al vino almeno altri 2-3 mesi di affinamento in bottiglia».
Tutta questa attenzione premia il SoloNero anche in termini di durata. «Recentemente ci è capitato di aprire un 2013 – conferma Mastricci – e non vi abbiamo trovato nessun segno di ossidazione o deterioramento. La differenza con una bottiglia più giovane sta soprattutto nel fatto che i sentori diventano maturi: frutti rossi in confettura, liquirizia e fava di cacao. Pensiamo che questa longevità venga aiutata sia dalla rilevante componente alcolica sia dal fatto che riponiamo le bottiglie nelle scatole francesi, le quali dispongono di alloggiamenti inclinati, in grado di far restare sempre umido il tappo di sughero».
La degustazione
«Nel bicchiere scintillante / come il riso dell’amante / mite infonde il giubilo!». Versando un SoloNero del 2016 nel calice vengono in mente i versi del brindisi di Turiddu in Cavalleria Rusticana. L’occhio, infatti, è subito attratto dall’intensità del suo tessuto rosso rubino, bordato di riflessi violacei netti. Al naso colpisce immediatamente il sentore del tabacco, che si accompagna a quello polposo di frutti rossi. In bocca si tasta una media consistenza, fatta di tannini morbidi e apprezzabile spalla acida. Il finale è secco, con residui di speziatura e di lontane note balsamiche. A tavola si accompagna a formaggi di lunga stagionatura, paste con ragù, timballi di riso, arrosti e grigliate di carni rosse.
Medaglia di Bronzo al Decanter World Wine Awards del 2018, con un punteggio di 87/100.
L’epopea del grano
Nell’esperienza Mastricci c’è molto della terra in cui si sviluppa, per la corrispondenza con un’agricoltura differenziata, ma pur sempre peculiare e rigogliosa. Accanto ai 35 ettari vitati, infatti, l’azienda ne conduce altri 25 di seminativi, ortaggi e uliveti, conferendo a terzi i prodotti per la loro trasformazione e commercializzazione. Cerignola permette da sempre questa varietà di produzione, sin dalle sue origini romane di municipium votato a Cerere (questo il probabile etimo del toponimo), dea dell’agricoltura e più propriamente delle messi.
Non a caso il popoloso centro foggiano e il Tavoliere tutto sono da sempre conosciuti con l’appellativo di “granaio d’Italia” ovvero di fonte e riserva di quello che Tommaso Fiore definì «oro di Puglia». È così che ancora oggi Cerignola racconta sulla sua stessa innervazione, fisica ed etnografica, una vera e propria epopea del grano, fatta di luoghi, oggetti ed eroi del quotidiano. Gran parte di tutto ciò è ricostruito e riproposto nel Polo Museale Civico (che ospita anche una sezione dedicata a Mascagni), dove accanto ad attrezzi agricoli e suppellettili della vita contadina di un tempo figurano contributi multimediali di grande impatto, come la carrellata di facce di uomini arse dal sole dell’aia, immortalate su vecchie pellicole in bianco e nero. Ogni primo piano è contemporaneamente l’immagine della fatica e la suggestione del luogo in cui questa si spende: una coppola sdrucita corona volti che appaiono arati come terra da semina. Mostrano a ogni tempo la saggezza che è capace di discernere prima di fare, caratteristica di coloro che sanno porre «mente alla spiga, / ch’ogn’erba si conosce per lo seme» (Pg XVI, 113-114), come direbbe quel Dante Alighieri tanto caro al cerignolano Nicola Zingarelli, padre del noto Vocabolario della lingua italiana.
Ma l’eredità maggiormente visibile di questa epopea è rappresentata dal cosiddetto Piano delle Fosse o di San Rocco, una particolarissima area del centro abitato, composta da 625 silos a campana, scavati nella roccia, la cui imboccatura affiora in superficie. Si tratta di un’antica modalità di conservazione del grano, conosciuta a Cerignola già dal XIII secolo ed estesasi nella zona dell’attuale Piano a partire dal ‘500. Ogni fossa granaria è profonda circa 5 metri, con un diametro massimo di 4,5 metri, che si restringe all’imboccatura circolare di superficie sino a 1,25 metri. Le fosse, un tempo tinteggiate a calce all’interno, sono state più spesso poi rivestite di pietra o mattoni. Ciascuna di esse può contenere circa 500 quintali di frumento.
«È come vedere un cimitero in mezzo alla cittadina – racconta curiosamente Antonio Mastricci -, ma è un cimitero di vita ovvero un luogo di riposo del raccolto. Ogni fossa, infatti, è contrassegnata da un cippo in pietra, su cui furono incise le iniziali del proprietario e il numero progressivo del silos. L’imboccatura veniva chiusa da assi di legno, su cui era sparso un cumulo di terra, che permetteva all’acqua piovana di defluire. Oggi queste cisterne sono vuote e appaiono chiuse in superficie con le tecniche originarie. So, però, di una fossa ubicata in una zona distante dal Piano, che è ancora oggi usata come magazzino. Nelle adiacenze del Piano, conserva invece tutta la sua suggestione il blocco delle Dieci Fontane, che serviva come abbeveratoio multiplo dei cavalli che trainavano i carichi di grano verso lo scarico in fossa».
Il prelievo tradizionale del grano dai silos di pietra era una sorta di rituale, frammisto di tecnica ed empirismo contadino. Ne erano protagonisti i cosiddetti sfossatori, che Tommaso Fiore definì un brulicante «popolo di formiche». Sull’imboccatura veniva montato un paranco in legno, che sorreggeva una carrucola, utile a far viaggiare da dentro a fuori la fossa un mastello colmo di grano, della capacità di circa 45 litri. «Una volta che la cisterna fosse stata svuotata nella parte superiore – aggiunge Mastricci – per avere la certezza che ci fosse aria all’interno, veniva calata una candela accesa, e in base alla permanenza della fiamma si capiva sin dove si potesse scendere con sicurezza, poiché solo in presenza di ossigeno la candela non si sarebbe spenta».
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