Somma Spumante - Dall’Appia dei Vini salgono bollicine
Nel Brindisino, a sud-ovest del capoluogo adriatico,yespuglia passa quello che dovette essere l’ultimo tratto della Via Appia. Un segmento di terra da sempre particolarmente vocato alla viticultura, che un tempo sottraeva terreno selvaggio all’estesa Foresta Oritana (tanto cara a Federico II di Svevia, per le sue battute di caccia), per concederlo al favore di Dioniso, sin dall’epoca pre-classica.
È certamente per questo che ancora oggi l’estremo lembo della regina viarum viene riconosciuto come Appia dei Vini ovvero tratto di congiunzione, storico e simbolico, tra vigneti di primitivo, malvasia nera, ottavianello e negroamaro, che caratterizzano un paesaggio eternamente sospeso tra il maestrale e lo scirocco, in cui i muretti a secco orlano eserciti di ulivi a perdita d’occhio e le masserie si ergono a baluardo del dono di natura.
Alla fine della fine dell’Appia, tra la chiesetta pre-romanica di Santa Maria di Gallana in Oria e il santuario cistercense di Maria Santissima di Cotrino, oggi l’antico idillio e la tradizione parlano una lingua nuova. Spumegginate, a tratti visionaria.
Siamo a Latiano, nella zona di Cotrino, vicinissimi al santuario. Nell’alto medioevo qui sorgeva uno dei casali orbitanti attorno all’attuale paese, il cui territorio nel 1092 veniva concesso dal principe Boemondo di Taranto ai benedettini dell’abbazia di Sant’Andrea di Brindisi, proprio con la raccomandazione che ne facessero terra vitata: «Pro vineis faciendis et plantandis». Agli occhi del visitatore, in una mattinata assolata di fine maggio, si apre una distesa rigogliosa di negroamaro allevato a tendone. Sono piante vecchie di quarant’anni, che poggiano su un terreno a medio impasto, tendenzialmente sabbioso. La potatura a verde di questo periodo libera i grappoli embrionali alle carezze della luce e dell’aria, tenendo lontano ogni attacco fungino. È qui che batte forte il cuore di Somma Spumante, un nome originale quanto una formula alchemica (non a caso ha nel marchio la rappresentazione stilizzata dei quattro archetipi naturali: aria, terra, acqua e fuoco), che assomma in sé quattro amici, una giovane azienda e la rivoluzionaria idea di produrre spumante a metodo classico, con dentro un’anima salentina.
«Siamo quattro sommelier – ci racconta Giuseppe Rollo – che si sono conosciuti proprio durante i corsi di sommellerie: oltre a me, Saverio Caniglia, Salvatore Baldari e Giulio Corciulo. L’amore per il nostro territorio e l’intuizione che nel negroamaro ci fossero le potenzialità per una vinificazione diversa da quella tradizionale ci ha portati a concepire un blend tra questo vitigno e lo chardonnay, che potesse essere alla base di uno spumante rosé a metodo champenois».
È stato così che l’intuizione si è rivelata subito azzeccata, sin dalla prima vendemmia del 2017, con la nascita di un prodotto alquanto peculiare, per nulla estraneo alle sue origini salentine, anzi in grado di esaltarle in una veste nuova. «Il negroamaro è storicamente uno dei vitigni più vocati per la produzione di rosati di qualità. La sua buona dotazione di acidità lo rende adatto anche alla spumantizzazione a metodo classico».
Il miracolo delle bollicine ha una doppia origine. Il vino base viene prodotto nella casa madre pugliese, dalle mani di Salvatore Baldari, che è anche l’enologo dell’azienda. La spumantizzazione, invece, è firmata da Cesare Ferrari, decano e autorità indiscussa del metodo classico, che segue il processo sino al prodotto finito in quel di Erbusco, in provincia di Brescia. «Il blend è un’idea nostra – ci tiene a sottolineare Rollo -: 80% di Negroamaro e 20% di Chardonnay. Noi l’abbiamo concepito e testato. È vero anche che la collaborazione con i professionisti bresciani è costante: seguiamo le loro direttive agronomiche ed enologiche, che fanno capo a protocolli già comprovati, sia per il lavoro in vigna sia per quello in cantina».
Come ogni vino, anche questo spumante paga il suo debito più grande alla qualità costruita in campagna. Cominciando dalla ridotta produttività dei vigneti, sino ad arrivare alle amorevoli accortezze della vendemmia.
«Ci bastano solo due ettari e mezzo per fare le nostre 7500 bottiglie – spiega Rollo di Somma Spumante – e, poiché ci preme preservare l’acidità del nostro frutto, anticipiamo la vendemmia di almeno due settimane rispetto alla raccolta usuale del negroamaro». E il taglio dei grappoli in casa Somma Spumante è un rituale che si consuma nella frescura notturna, dalle 04:30 alle 7:00 del mattino, con grande attenzione alla posa delle uve nelle cassette e al trasporto nei cassoni, acciocché sia evitato ogni possibile innesco di fermentazione.
Attualmente sono in commercio due etichette di rosé SOMM’A4 a metodo classico: un brut e un pas dosé, entrambi sboccati nel secondo semestre del 2020, dopo 24 mesi di affinamento sui lieviti, ed entrambi con un titolo alcolometrico volumico del 13%. Nel brut, proprio la struttura accentuata e un finale setoso sono il contributo più eloquente del Negroamaro al prodotto finale, in cui lo Chardonnay ha il compito di mitigare l’irruenza della bacca nera. Nel ballon flute di servizio, una spuma vaporosa corona la veste rosa rame del vino, che appare brillante e con un perlage di grana fine. Al naso, è impetuoso l’effluvio di spirito, che avvolge i sentori di marasca e agrumi e attenua quello di crosta di pane. In bocca si susseguono, contrastando, la naturale freschezza e sensibili note pseudo caloriche, che preludono a una coda allappante di melagrana. 90 punti su 100 nel giudizio di Vinoway Wine Selection 2021.
Aperitivi, antipasti all’italiana e finger food sono gli abbinamenti più adatti per questo spumante, che ama anche i piatti di mare e si candida ad accompagnare l’intero pasto, se in menu non compaiono pietanze eccessivamente elaborate. Tra le affinità più elettive quelle con la movida salentina.
Latiano, storia e territorio
Nelle bollicine Somma Spumante c’è il territorio, non solo perché le uve nascono da un terroir endemico e non solo perché il blend è a trazione autoctona. C’è il territorio perché di Latiano e di Brindisi sono i quattro papà dello spumante, che nella tradizione storica e culturale della loro terra rimpongono le aspettative di una scoperta turistica di questa parte dell’entroterra salentino.
Latiano, che conta circa 14mila abitanti, vanta un grazioso centro storico, nel quale campeggiano diverse pregevoli chiese, sorte quasi tutte tra il XVII e il XVIII secolo. In quello stesso periodo il paese vide il suo maggior sviluppo, sotto il governo illuminato della nobile e ricca famiglia Imperiale di Genova, che qui ebbe dimora nel Palazzo omonimo detto Castello, che ancora oggi guarda la centralissima piazza Umberto I. Proprio le sale del maniero ospitano alcune tele di Girolamo Cenatiempo, noto pittore allievo di Francesco Solimena. Attivo in tutto il Regno di Napoli fra il 1705 e il 1742, Cenatiempo occupò un posto di rilievo nell’ambito del tardo barocco napoletano: alcune sue opere sono conservate nel Museo Nazionale d’Abruzzo e nella Galleria Nazionale di Parma.
Più recentemente, a cavallo tra Ottocento e Novecento, Latiano ha legato indissolubilmente il suo nome a quello del Beato Bartolo Longo, fondatore e finanziatore del Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei e fautore di innumerevoli altre opere caritatevoli. Il Beato nacque e visse la sua fanciullezza proprio nel piccolo centro brindisino, dove la sua casa ricca di testimonianze (arredi e stampe d’epoca, libri, ricordi di famiglia) attende di essere musealizzata. Per quanto se c’è una cosa di cui Latiano proprio non difetta sono i musei. Se ne contano ben cinque: il Museo delle Arti e Tradizioni di Puglia, il Museo del Sottosuolo, il Museo della Storia della Farmacia, la Pinacoteca Comunale e il Centro di Documentazione Archeologica.
Proprio il Centro di Documentazione Archeologica è strettamente collegato con i ritrovamenti del vicino (a 2 km da Latiano) sito messapico di Muro Tenente, oggi cinto in un Parco Archeologico di 30 ettari. All’interno si riconoscono strade e parti di necropoli e di insediamenti, di età compresa tra il VI e il III secolo a.C. Già alla fine dell’VIII secolo a.C., questo centro messapico raggruppava diverse capanne. Sino a raggiungere il momento di maggiore sviluppo in età ellenistica (fine del IV- III secolo a.C.), con l’erezione di un imponente circuito murario.
Le popolazioni antiche "I Messapi"
«I Messapi – commenta orgoglioso Rollo – sono in tutto e per tutto i nostri avi, anche in campo enoico. Qui la vite e il vino sono arrivati prima dei Greci, dai quali, però, i Messapi pare abbiano appreso l’arte della vinificazione “a lacrima”, che consisteva nel far trasudare il mosto fiore da un sacco di iuta, nel quale l’uva a bacca nera veniva pigiata delicatamente: un sorta di pressatura soffice ante litteram. La tradizione vinicola, poi, è proseguita anche in età romana. Su quest’ultimo tratto di via Appia transitava il commercio del vino tra Occidente e Oriente. Ne parlano Plinio il Vecchio nella Naturalis historia e Varrone nel De re rustica. In queste contrade sorgevano anche le fornaci che producevano le anfore vinarie, destinate a viaggiare nel Mediterraneo».
Proprio con il titolo di “Appia in tabula” il Parco Archeologico di Muro Tenente ha voluto appellare la sua estate di eventi 2021. Dal 14 giugno al 13 agosto tantissimi gli appuntamenti con le visite guidate nel Parco, i concerti e le performance teatrali. Il tutto mentre è in corso una nuova sessione di scavi archeologici, che saranno resi visibili al pubblico in tempo reale.
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